Delle cause di alcuni pregiudizi antifamiliari parliamo nell’articolo I nemici della famiglia vogliono lo stato etico. Questi pregiudizi si sono però scontrati con una consapevolezza sempre più diffusa dell’insostituibile centralità sociale della famiglia.
Di conseguenza, coloro che – per motivi personali o ideologici – non rinunciano alla loro battaglia antifamiliare hanno scelto negli ultimi anni una strategia più subdola. Non attaccano apertamente l’istituto familiare. Affermano che sì, sono importanti e legittime le azioni di sostegno alla famiglia. Ma subito dopo parlano anche di “nuovi modelli di famiglia”, o di "definizione inclusiva" della famiglia: sarebbero “famiglie” anche quelle in cui non c’è un vincolo matrimoniale, quelle poligamiche, le coppie omosessuali o incestuose, persino ... i singles (definiti disinvoltamente - anche dall’ISTAT - famiglie “unipersonali”)! Cercano di svuotare di contenuto il matrimonio (non solo religioso, anche civile) parlando di "matrimonio" per gli omosessuali, o di simulacri di matrimonio (con i diritti, senza i doveri) come i Pa.C.S. o i Di.Co. o i C.U.S.
Imboccata la strada della confusione linguistica e concettuale, non stupisce che una proposta di legge finlandese definisca la famiglia come “l’insieme delle persone che si servono dello stesso frigorifero”!!!
È evidente che i giochi di parole non sono sufficienti ad assegnare a forme di convivenza diverse dalla famiglia tradizionale la sua stessa funzione sociale. Estendere in maniera indiscriminata il concetto di famiglia è un modo di giocare con le parole, per annacquare e svuotare di significato ogni politica per la famiglia. Sarebbe come riconoscere la preferenza per gli invalidi nelle graduatorie pubbliche, aggiungendo però che possono essere considerate invalide tutte le persone calve o stempiate, quelle che portano gli occhiali, quelle che hanno un po’ di pancetta, quelle che hanno sofferto di raffreddore negli ultimi ventiquattro mesi, ecc.: addio alla preferenza!
Bisogna ribadire allora alcuni concetti. Il termine famiglia è usato in modo appropriato per quella che possiamo definire famiglia “tradizionale” (chi l’avrebbe mai detto che ci sarebbe stato bisogno di queste specificazioni…). Vale a dire la “società naturale fondata sul matrimonio” (cui si riferisce l’art. 29 della nostra Costituzione: lo Stato “riconosce” questa famiglia, dunque riconosce un modello di realtà che lo precede), nella quale un uomo e una donna si uniscono in un vincolo stabile e ufficiale (il matrimonio, civile o religioso che sia) per sostenersi, concepire e crescere in maniera sana i futuri cittadini. Tale formazione sociale è il destinatario naturale di quelle che individuiamo come politiche per la famiglia; non per un'istanza moralistica o religiosa, bensì perché è l’unica formazione sociale in grado di assolvere le funzioni di rilevanza pubblica di cui parliamo in un altro articolo.
Ciò non significa, sia ben chiaro, che lo Stato debba limitare la libertà di ognuno di scegliere altre forme di convivenza. Cosa ben diversa, però, sarebbe il riconoscimento e il sostegno pubblico a queste forme di convivenza in quanto tali, riconoscimento e sostegno che spettano alla sola famiglia legittima. Sarebbe insopportabilmente moralista proprio lo Stato che pretendesse di equiparare realtà che hanno una natura profondamente diversa.
Elementi costitutivi e finalità della famiglia
I Padri costituenti “riconoscono” la famiglia tradizionale come società “naturale” perché gli elementi costitutivi di questo modello di convivenza (uno “materiale”, la complementarietà sessuale maschio-femmina in una comunione di vita, ed uno “formale”, l’esistenza di un vincolo – il matrimonio – stabile e ufficiale) sono quelli in grado di rispondere più pienamente a finalità e bisogni proprî della natura umana: procreazione, affettività e mutua assistenza.
Innanzitutto, la capacità di rispondere efficacemente ai bisogni naturali delle persone è una capacità che ha un riscontro storico in tutte le civiltà: l’ordinamento ne prende atto.
In secondo luogo, questa capacità emerge da un’attenta analisi dei bisogni in esame. Partiamo dalla procreazione ed educazione dei figli, le quali, oltre a costituire una finalità e un bisogno proprio dell'uomo, costituiscono anche la principale funzione di utilità sociale per cui l’ordinamento conferisce tutela alla famiglia.
La filiazione qualifica la famiglia come comunità "naturale" anche in quanto comunità necessaria, fondata non esclusivamente su basi volontarie: i figli non scelgono di nascere. Non a caso, il termine "natura" ha la stessa etimologia di "nascita": comunità naturali sono quelle (lo è anche la comunità politica) a cui si appartiene necessariamente per il semplice fatto di esservi nati. Un rapporto necessario come la filiazione conferisce a tale comunità - dicevamo - finalità e bisogni proprî, definendo un conseguente modello giuridico (con diritti e doveri).
In che misura queste finalità della famiglia - procreazione ed educazione - dipendono strettamente dai suoi elementi costitutivi (quello "materiale" e quello "formale")?
L'elemento "materiale" - la presenza di entrambe le figure genitoriali (maschile e femminile) - è innanzitutto una necessità biologica comune a tutte le specie evolute: l’unione di corredi cromosomici diversi crea persone nuove, uniche, apportatrici di un contributo originale alla società. Volendo andare oltre il dato biologico (che non può però essere ignorato), la presenza di entrambe le figure genitoriali è necessaria per uno sviluppo completo della personalità dei figli. Si tratta di una convinzione pressoché unanime tra gli psicologi, che evidenziano le difficoltà maggiori dei figli privi di un genitore.
Questa presenza di entrambi i genitori è garantita stabilmente dal matrimonio, elemento costitutivo "formale" della famiglia: esso comporta diritti e doveri, che si è portati ad assumere se si ha un progetto a lungo termine; perché la ritualizzazione di un impegno accresce - è un dato dell'antropologia culturale - la capacità di rispettarlo. Lo Stato ritiene di interesse pubblico proteggere la famiglia e le funzioni sociali - la filiazione innanzitutto - che esercita, tutelare i diritti e doveri che sorgono naturalmente in una relazione familiare: lo fa proprio con l'istituto del matrimonio, che rende quei diritti e doveri necessarî, non legati alla disponibilità delle parti (tant'è che la dottrina parla di "atto giuridico in senso stretto", e non di "negozio giuridico"); e pone altresì una serie di condizioni per il suo scioglimento.
“Esistono coppie sposate senza figli”, è un’obiezione spesso portata per contestare che la filiazione sia tratto caratterizzante di una famiglia. In realtà non è la procreazione già avvenuta, l’esistenza attuale dei figli, a costituire un elemento costitutivo della famiglia. La procreazione è un fine; elemento costitutivo è l’attitudine a procreare, data dalla complementarietà sessuale. Il modello giuridico regola non ciò che avviene nel singolo caso, ma "quod plerumque accidit", ciò che avviene nella maggior parte dei casi.
“Esistono molti casi di violenza in famiglia! Esistono casi di bambini cresciuti con un solo genitore che hanno trovato altrove (zii, nonni) figure di riferimento compensative! Esistono matrimoni che finiscono presto, e convivenze che durano a lungo!”, sono altre obiezioni, addotte invece per contestare che la famiglia sia il luogo elettivo per la crescita dei figli. Obiezioni anch’esse infondate. Infatti, sarebbe come rilevare che molti giovani non hanno tratto giovamento dalla scuola, e che molti autodidatti sono riusciti a farsi strada nella vita; quindi aboliamo la scuola? Le eccezioni, le capacità di adattamento delle persone, non escludono che la collettività debba offrire ai figli le condizioni migliori per la loro crescita. Che non si verificano - ce lo dicono anche i riscontri sociologici che esamineremo fra poco - in altre forme di convivenza.
Quanto all’altra finalità-bisogno naturale delle persone, l’affettività e la mutua assistenza reciproche, va evidenziato innanzitutto che l’unione di uomo e donna è unione di due diversità che si completano e si arricchiscono.
In secondo luogo, il matrimonio - cioè un impegno pubblico ed esclusivo, senza limiti prefissati di tempo e con reciproci diritti e doveri - sancisce la pienezza di questa comunione affettiva e garantisce l'ulteriore funzione sociale del matrimono, costituita dall'elemento solidaristico (mutua assistenza). Cosicché la comunione affettiva può essere definita affectio coniugalis.
“Ma non si può pensare che l’amore esista solo tra uomo e donna, o se c’è il matrimonio! Non si possono ingabbiare i sentimenti! E più autentico un amore che si rinnova giorno per giorno, senza obblighi!”, sono gli slogan – ci si consenta: un po’ emotivi e superficiali – con i quali si vuole giustificare l’equiparazione alla famiglia di altre forme di convivenza. Se volessimo entrare nel merito di cos’è “amore”, forse potremmo approfondire gli argomenti che abbiamo accennato: un amore fondato sullo sforzo di cercare l’altro da sé, derivante dalla complementarietà degli universi maschile e femminile, è più grande e più completo di uno fondato sulla ricerca del simile a sé; un amore promesso per tutta la vita è più grande di un amore a termine; un amore che si impegna nei doveri è più grande di un amore che reclama solo diritti.
Inoltre: perché dovremmo estendere la tutela giuridica propria della famiglia soltanto ad alcuni legami affettivi e non ad altri? Che cosa distingue il legame tra una coppia omosessuale (che si vorrebbe tutelato) da quello tra amici, studenti universitarî, colleghi di lavoro, membri di una comunità religiosa, gruppi di più di due persone che convivono? L’ “amore”? E per che cosa si caratterizza questo “amore”: per l’esistenza di rapporti sessuali? Sarebbero dunque meritevoli di particolare garanzia solo i rapporti a sfondo sessuale tra due persone? E per quale motivo? Chi dovrebbe entrare in camera da letto a controllarli?
La realtà è che queste discussioni hanno scarsa rilevanza giuridica. Il diritto non si occupa di sentimenti. L’ordinamento giuridico non deve garantire l’ “amore”. L’ordinamento conferisce riconoscimento pubblico solo alla famiglia, in quanto questa esercita funzioni di utilità sociale.
Innanzitutto la procreazione e l’educazione dei figli, futuri cittadini; funzione per la quale sono essenziali entrambi gli elementi costitutivi che abbiamo analizzato. Del resto, anche etimologicamente, il “matri-monium” (col complesso di diritti e doveri che ne deriva) nasce come istituto di “tutela giuridica della madre”, al fine di garantire che, nel lavoro di cura richiesto dalla crescita dei figli, la madre sia assistita stabilmente dall’uomo con cui li ha generati.
Quanto alle funzioni di mutuo sostegno, l’esistenza di un vincolo tra i coniugi offre alla collettività garanzie precise sulla non aleatorietà di un impegno affettivo.
Le forme di convivenza diverse dalla famiglia.
Abbiamo sin qui esaminato perché la famiglia quale “società naturale fondata sul matrimonio” è riconosciuta meritevole dal nostro ordinamento di tutela giuridica. Esaminiamo anche – di riflesso - perché forme di unione diverse dalla famiglia non possono ambire al medesimo riconoscimento.
Nel caso delle coppie eterosessuali non sposate, con figli o senza, esistono gli elementi “materiali” di una famiglia, ma non pienamente quelli formali e psicologici. Il rifiuto di sposarsi indica una precisa volontà della coppia di non dare stabilità al rapporto, di non progettare il futuro, il che rende precario e solo eventuale l’assolvimento dei compiti di rilevanza sociale che abbiamo esaminati. L’educazione dei figli, ad esempio, richiede un impegno forte a lunga scadenza; ed anche il coniuge debole può essere tutelato nei suoi diritti solo se questi sono riconosciuti da un’ufficiale assunzione di responsabilità.
Tra i riscontri sociologici a questa realtà (molti condotti negli Stati Uniti), possiamo citare il lavoro di Patrick FAGAN, Costruire il benessere economico e l’indipendenza della famiglia, in La Società n.1/1997, Verona; una ricerca di due sociologhe dell’Università di Chicago, si intitola significativamente A favore del matrimonio: perché le persone sposate sono più felici, sane e benestanti [1].
La ricerca di due studiose dell'Università di Austin (Texas) attesta che i figli nati fuori dal matrimonio vivono nella loro infanzia un'instabilità della composizione familiare molto maggiore che non i figli nati in una coppia sposata. Anche perché la separazione rappresenta la patologia del matrimonio (che nasce per durare), e la fisiologia della convivenza (per la quale, invece, è la lunga durata a costituire l'eccezione). Questo causa comportamenti molto più problematici di questi bambini (oltre che maggiori disagi economici, maggiori probabilità di depressioni delle madri) [2].
Un importante studio pubblicato nel 1994 dalla Joseph Rowntree Foundation, in collaborazione con l’Università di Exter in Gran Bretagna, dimostra come i figli di famiglie rimaste integre, anche con frequenti litigi tra i genitori, superino i proprî traumi con facilità molto maggiore rispetto ai figli che vivono con un solo genitore [3].
La devianza giovanile, o l’abbandono scolastico, risultano in relazione con le nascite al di fuori del matrimonio molto più che con le condizioni economiche. Il reddito medio di un adulto sulla trentina proveniente da una famiglia unita è superiore di 10.000 dollari a quello del figlio di una famiglia divisa. Sempre negli Stati Uniti, nel 1965, l’80% delle famiglie al di sotto della soglia di povertà erano famiglie con coniugi sposati; oggi l’80% è rappresentato da famiglie di separati.
Anche in Italia la fecondità nelle coppie sposate è più alta che in quelle che coabitano (nell'articolo sul Ruolo sociale della famiglia vediamo quanto questo fenomeno sia negativo, poiché il calo demografico intacca “il capitale umano” di cui la società ha bisogno). Infatti, la precarizzazione dei rapporti di coppia riduce la disponibilità a investire sul futuro; la donna ha timore di essere lasciata sola nella crescita dei figli; le coppie di fatto vedono i figli come un elemento che le costringe a stabilizzare il loro legame [4].
“Una famiglia non ha bisogno di riti e formalità!” affermano molte coppie di fatto. A noi sembra che quest’affermazione un po’ sentimentalistica (abbiamo parlato innanzi dell'irrilevanza giuridica dei "sentimenti") celi la reale volontà - perfettamente legittima e rispettabile, intendiamoci - di non dare stabilità al rapporto, di viverlo con la riserva “finché andiamo d’accordo”. In ogni caso, se non si è interessati alle “formalità” richieste dal diritto, non si sarà interessati neanche allo status che ne deriva. Insomma, al rifiuto di assumersi gli obblighi (verso la società, verso il coniuge, verso i figli) che la famiglia comporta, non può corrispondere il riconoscimento dei corrispondenti diritti, che diverrebbero semplici privilegi, benefici riscossi senza la reciprocità di vantaggi prodotti per la società.
A meno che non si voglia imporre alle coppie di fatto l’assolvimento di alcune funzioni, finendo col conculcare la libertà di tali cittadini. Lo Stato, infatti, ai soggetti che formano una famiglia impone, per il miglior funzionamento della stessa, precisi doveri giuridici (quelli previsti dall’art.143 cod. civ. - fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione, coabitazione -, limitazioni alla disponibilità sul proprio patrimonio - riserve ereditarie, trasmissione di contratti d’uso, assegni di mantenimento -, ecc.): proprio quegli obblighi a cui cerca di sottrarsi chi non si sposa!
Resta il problema degli eventuali figli delle coppie di fatto o delle ragazze madri: sono soggetti deboli, non responsabili della scelta di precarietà dei genitori. Interventi di tutela, in questo caso, sono doverosi, ma devono essere indirizzati direttamente ai figli, non al gruppo ‘familiare’, e solo qualora esistano condizioni di bisogno. Altrimenti si possono produrre pericolose distorsioni: si pensi all’assegno di maternità previsto, alcuni anni or sono, per le ragazze madri dello Stato di New York: era così cospicuo, che grazie ad esso si mantenevano anche i compagni che si succedevano al fianco della ragazza, nonché una serie di altre persone: anziché favorita, era scoraggiata la ‘sistemazione’ di madre e bambino (un po’ come accade con le indennità di disoccupazione troppo alte, che disincentivano dal trovar lavoro).
I soggetti deboli che vivono in una coppia di fatto non hanno nessun diritto? Come spieghiamo più a fondo nel paragrafo “Diritti e privilegi” dell’articolo I nemici della famiglia vogliono lo stato etico, hanno i diritti umani, civili e politici di tutti gli individui e cittadini in quanto tali. Rispetto al partner, hanno la possibilità di ottenere garanzie con gli strumenti del diritto privato, hanno alcuni diritti riconosciuti da legislazione e giurisprudenza costituzionale ad essi come singoli, seppure in connessione al loro stato di fatto. Riconoscere ulteriori privilegi non ha fondamento giuridico, danneggia la famiglia e la collettività. Non è discriminazione, ma una corretta applicazione del principio di uguaglianza, riconoscere solo i diritti corrispondenti a bisogni reali.
Nello stesso articolo evidenziamo come il fallimento dei registri delle unioni civili attesti che non c'è da parte delle coppie di fatto un'esigenza di riconoscimento.
Abbiamo analizzato a fondo il caso delle coppie di fatto eterosessuali, anche se forse si tratta di quello meno controverso: è abbastanza evidente che la loro condizione è frutto di una libera scelta, e che non sarebbe ragionevole pretendere diritti senza volersi assumere doveri (nonostante in Italia sia un po’ diffusa la mentalità del “se riesco a rimediare qualcosa che non mi spetta, meglio così!”).
Diverso è il caso di quelle coppie omosessuali che reclamano tutela dicendosi disposte ad assumere anche gli obblighi del matrimonio; al quale però non possono accedere.
E’ un caso numericamente ancor meno rilevante, ma politicamente più spinoso, perché sono proprio le lobbies gay (che peraltro rappresentano solo una minoranza degli omosessuali) le animatrici più tenaci delle campagne di “estensione dei diritti della famiglia”, anche se cercano di mimetizzare le loro aspirazioni unendole alle presunte esigenze delle coppie di fatto eterosessuali.
Ebbene, le coppie omosessuali sono prive dell’elemento costitutivo “materiale” della famiglia: la complementarietà sessuale che conferisce l’attitudine a procreare e ad educare i figli. Una complementarietà che non è solo requisito biologico, ma anche psicologico, per cui non può essere surrogata con fecondazioni artificiale o adozioni. Il diritto dei bambini a crescere nella loro famiglia naturale, con un padre e una madre, è un diritto che prevale su ogni altra aspirazione e desiderio degli adulti (sempre più espansi in una cultura del dominio dei desiderî): perché si tratta del diritto dei soggetti più deboli, e perché si tratta di un diritto fondamentale, che investe la formazione della personalità, la costruzione dell’identità, l’intera vita futura dell’individuo.
Esiste ormai una casistica di figli cresciuti in coppie omosessuali, a causa del fatto che in alcuni Paesi sono autorizzate o tollerate l'adozione o la fecondazione artificiale eterologa. Ebbene, questi bambini presentano problemi psicologici in percentuale molto maggiore di quelli cresciuti in famiglie regolari. Questo accade sia per il senso di precarietà, superiore anche a quello dei bambini cresciuti in coppie di fatto o con genitori separati (le coppie omosessuali sono mediamente molto più instabili); sia perché a questo disagio si somma la mancanza di una delle figure genitoriali di riferimento (padre/madre) [5]
Le coppie omosessuali, dunque, non possono definirsi “famiglia”, e non assolvono le funzioni pubbliche normalmente svolte dalla famiglia.
Quindi non possono accedere al matrimonio, istituto finalizzato alla tutela della famiglia. Non a caso, nella dottrina civilistica tradizionale l’eventuale matrimonio tra persone dello stesso sesso non viene ritenuto "nullo", bensì "inesistente".
Parimenti, sono prive di giustificazione le pretese di ottenere forme di riconoscimento pubblico surrogate del matrimonio, o “diritti” proprî del matrimonio, rispetto a bisogni che – come per le coppie di fatto eterosessuali - possono essere tutelati in altro modo.
Concludendo: le caratteristiche della famiglia non sono definite dalla mutevole volontà dei singoli, ma dal carattere naturale e necessario di essa, determinato anzitutto - come visto inizialmente - dall'attitudine alla filiazione. E' a tale carattere - nella pienezza dei suoi elementi materiale e formale - che l'ordinamento dà rilevanza pubblica, facendovi corrispondere un modello giuridico e una determinata tutela di tipo pubblicistico.
Situazioni e rapporti diversi richiederanno tutele diverse, che solo eccezionalmente potranno essere di tipo pubblicistico. Tali eccezioni, motivate da particolari esigenze (presenza di soggetti deboli come i figli), dovranno essere strettamente mirate alla tutela delle esigenze stesse, e non potranno essere indebitamente estese al rapporto in quanto tale.
(1) Linda J. Waite e Maggie Gallagher, The Case for Marriage: Why Married People Are Happier, Healthier, and Better off Financially, 2000, Doubleday & Company, Incorporated).
Secondo la ricerca Children and Life Satisfaction, condotta da Luis Angeles del Dipartimento di Economia dell’Università di Glasgow, e pubblicata sul Journal of Happiness Studies nell’ottobre 2009, i figli sono il segreto della felicità, purché si sia sposati.
(2) Shannon E. Cavanagh e Aletha C. Huston, Family Instability and Children's Early Problem Behavior, in Social Forces, Volume 85, N. 1, September 2006, pp. 551-581
(3) v. anche: Elizabeth Marquardt, Tra due mondi: la vita interiore dei figli del divorzio (Between Two Worlds: The Inner Lives of Children of Divorce), Crown Publishers, 2005
(4) Fausta Ongaro, Le scelte riproduttive tra costi, valori, opportunità, Franco Angeli editore, Milano 2006; una bibliografia della letteratura sociologica in materia è nell'articolo di Giacomo Samek Lodovici Genitori separati. I figli soffrono, ne Il Timone n.63 del maggio 2007
(5) cfr: X. Lacroix, In principio la differenza. Omosessualità, matrimonio, adozione, ed. Vita e Pensiero, Milano 2006; J. Dailey, Homosexual Parentig: Placing Children at Risk, www.frc.org/get.cfm?i=IS01J3; Deevy, When mom or dad comes out, in Journal of Psycological Nursing, 27, 1989, p. 34; Lobbia - Trasforini, Voglio una mamma e un papà, ed. Ancora, Milano 2006; Claire Breton, Ho due mamme, Sperling & Kupfer, Milano 2006.
Nella stessa direzione lo studio statisticamente più ampio condotto sino ad oggi: Mark Regnerus, How Different are the Adult Children of Parents who have Same-Sex Relationships? Findings from the New Family Structures Study, in Social Science Research, Volume 41, Issue 4, July 2012, Pages 752–770. Lo studio attesta differenze statisticamente molto rilevanti, con connotazioni negative, tra i giovani cresciuti in famiglie in cui almeno uno dei genitori ha avuto relazioni omosessuali (non solo, quindi, persone cresciute da coppie integramente gay) e i figli di coppie regolari: i primi pensano di più al suicidio (12% per chi aveva madri lesbiche e 24% padri gay, contro il 5% dei figli di coppie normali), sono più propensi al tradimento (40% e 25% contro 13%), sono più spesso disoccupati (28% e 20% contro l’8%), destinatari di assistenza sociale (38% e 23% contro 10%), in terapia psicologica (19% contro 8%). Inoltre, nel 20% (25%) dei casi hanno contratto una patologia trasmissibile sessualmente (contro l’8%), sono stati più di frequente oggetto di attenzioni sessuali da parte del genitore o di altro adulto (23% e 6% contro 2%) e sono genericamente meno sani, più poveri e più inclini al fumo e alla criminalità.